Il Detonatore

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DIALETTO, GERGO E ANGLICISMI: MA L’ITALIANO? (di Davide Cavaliere)

Secondo un’indagine dell’ISTAT del 2015, il 14% (8 milioni 69mila persone) usa, prevalentemente, il dialetto per comunicare. Il 32,2% impiega sia l’italiano sia il dialetto. Meno della metà della popolazione nazionale, il 45,9%, usa prevalentemente l’italiano

Una fotografia inquietante. Il massiccio uso dei dialetti nel Bel Paese non è dovuto a una particolare “vitalità” delle lingue locali, ma a una stagnazione culturale plurisecolare, che ha visto l’Italia come una delle nazioni meno alfabetizzate d’Europa fino al 1950. Il tasso di analfabetismo è sceso sotto al 10% durante gli Anni Cinquanta e, nel 1961, si collocava intorno all’8%. L’analfabetismo non è ancora completamente scomparso, poco meno di 800mila italiani non sanno né leggere né scrivere. Proprio mentre i dialetti vanno scemando, un nuovo ostacolo impedisce l’imporsi di un italiano corretto e ricco. 

Mi riferisco, ovviamente, alla diffusione di un gergo colmo di espressioni colloquiali, mugugni, cadenze e suoni al posto delle parole e una quantità inenarrabile di formule linguistiche preconfezionate e fastidiose, come il penoso e pandemico “ci sta”. Un costume linguistico che è specchio e prodotto di una scuola ridotta a gioco educativo della Clementoni e di una generazione stordita dai telefonini, mentalmente inerte, disabituata alla profondità del pensiero e del lessico, scarsamente vigile, incapace di stare in silenzio e rintronati da una non-musica cacofonica e infantile. L’arretratezza del dialetto, figlia del sottosviluppo economico e sociale, è stata rimpiazzata dalla desertificazione del gergo postmoderno, risultato del “progresso” e della dinamicità irriflessiva dell’economia

Si tratta dell’ennesimo intralcio alla formazione di una radicata “coscienza nazionale”. L’Italia deve il suo “essere Nazione” ai poeti e agli scrittori, che hanno mantenuto viva la Lingua e nascosto dietro la passione per quest’ultima i loro sentimenti di patrioti e italiani. La disunità linguistica ha afflitto lo Stato Unitario, impedendo il maturare di un radicato senso di appartenenza nazionale. Ancora oggi, il dialetto è pensato in opposizione all’italiano e all’idea di Italia. Allo stesso modo, il globish, l’inglese funzionale e piatto della comunicazione mondiale, è pensato come un elemento di svecchiamento e di modernizzazione in chiave anti-nazionale. 

L’apprendimento delle lingue straniere avviene non con l’intenzione di affiancare alla conoscenza della Lingua italiana una o più lingue estere, ma con la volontà di sostituire e cancellare l’idioma madre, in vista di un espatrio o per un malinteso cosmopolitismo. Quando le nazioni riacquistano la loro indipendenza e libertà, riscoprono la lingua nazionale. Al contrario, la patrie che decadono corrompono la loro lingua, imbastardendola con sbarcati termini stranieri. Dispiace dirlo, ma anche l’area politica “sovranista” abusa di lemmi esteri, quando “Prima l’Italiano” dovrebbe precedere il più classico “Prima gli italiani”. Persino il Presidente della Repubblica Italiana ha parlato di “lockdown” invece di “confinamento”, rendendo manifesta tutta la nostra decadente disaffezione alla lingua nazionale. Il filosofo ignoto, Guido Ceronetti, auspicava metodi autoritari per imporre l’uso dell’italiano e bandire gli impropri vocaboli d’importazione. 

A qualcuno sembrerà un comportamento fascista, poco importa, ne va della sopravvivenza di quella che Thomas Mann chiamò: “la lingua degli angeli“. 

                                   Davide Cavaliere 

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