L’EDITORIALE – PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI UN’IDENTITÀ (di Davide Cavaliere)
Il vero padre dell’umanitarismo ideologico del nostro tempo è Julien Benda. Nel suo celebre Discorso alla nazione europea, esorta gli intellettuali a «proclamare alle vostre nazioni ch’esse sono perpetuamente nel male, per il solo fatto di essere nazioni» e poco dopo scrive: «Plotino arrossiva di avere un corpo. A voi tocca essere quelli che arrossiscono di avere una nazione».
Per il filosofo marxista le nazioni e le patrie sono la causa d’ogni male. Le guerre scaturiscono, solamente, dalla manichea opposizione tra «Noi» e «Loro», «Qui» e «Altrove». Benda concepisce l’ideale di «Umanità» come assenza di identità e appartenenze storico-geografiche. Per lui, al pari degli europeisti del presente, bisogna realizzare l’Europa unita non come fine in sé, ma come prima tappa di un processo antinazionale di sradicamento, che avrà come meta la comtiana «Società dell’Umanità». Scrive Benda: «Poiché l’Europa sarà, nell’empietà, necessariamente meno empia della nazione […] L’Europeo sarà fatalmente meno legato all’Europa che non il francese alla Francia».
L’Europa, come le nazioni, è una realtà concreta e fornisce un’identità, sebbene più sfumata di quella nazionale, dunque rimane un «particolare» che separa gli uomini dall’umanità. Si usa l’Europa contro le nazioni e poi l’umanità contro l’Europa. Tutto dev’essere sacrificato a quello che Benda chiama «il dio dell’Incorporeo». La demonologia degli umanitari fa discendere tutto il Male dalle terre dei padri, dai lignaggi, dalle autoctonie, dai cognomi che si impongono sui nomi. L’Uomo iperuranico è l’uomo universale e planetario. L’«Umanità» è un corpo amputato del passato.
Quella della persona sradicata, ha detto Hannah Arendt, è la categoria più rappresentativa del Novecento. Il fanatismo della nazione ha privato alcuni delle radici, ma non ha creato uomini incorporei e felici, bensì fantasmi disumanizzati. Liquidando il passato l’uomo non conquista la propria, piena, umanità. L’esule e l’apolide sono degli infelici, delle persone di «serie B». Scrive Jean Améry: «Sono sempre convinto, tuttavia, che occorra trovarsi in mezzo ai propri compatrioti nelle strade di un viaggio o di una città per meglio apprezzare i propri concittadini spirituali e che l’internazionalismo culturale possa prosperare soltanto all’interno di una sicurezza nazionale».
Arendt e Améry hanno subito le conseguenze del razzismo e del fondamentalismo etnico, ma hanno riscoperto il valore delle radici e dell’identità. In altri termini, se è inumana la determinazione dell’uomo mediante il sangue e il suolo, non è meno invalidante l’esistenza dello sradicato. Nel momento in cui è costretto a rompere con la propria identità, Jean Améry, ovvero Hans Mayer, scopre che non tutto ciò che è dato è oppressivo. I limiti dell’identità rendono possibile la libertà. Hannah Arendt e Vasilij Grossman avevano capito che nella maternità, incarnata dal dipinto della Madonna Sistina di Raffaello, si trova il fondamento di ogni libertà, che si dà nella relazione e nell’accettazione di essere «figli di», ovverosia determinati da una storia.
Il mondo del presente, plasmato dagli adepti inconsapevoli di Julien Benda, è senza memoria né topografia. Un universo fluido e nebuloso, che assomiglia al caos primordiale, dove regnavano «le acque» cioè l’indistinto. Bisogna dare ragione a Roberto Calasso quando afferma che questo mondo, informe e grezzo, muove verso la divisione in due sole categorie: quelle dei «turisti» e dei «terroristi». I primi passeggiano in luoghi museificati, nei quali identità e differenza si offrono indistinti al suo sguardo, dove anche ciò che appartiene alla loro storia appare «straniero»; i secondi vengono, almeno oggi, da lontano per abolire se stessi e il prossimo in un unico atto distruttivo, convinti di trovare nella morte un «significato».
All’inquietante interrogativo di Chateaubriand: «Come sarà una società universale priva di un particolare paese?». Oggi, possiamo abbozzare una risposta, sarà una società deforme e disumana, ma animata dalla convinzione di essere «il più umano dei mondi possibili».
Davide Cavaliere