DE CRESCENZO E CAMILLERI. VERA GLORIA O PANNA MONTATA? (di Franco Marino)
De mortuis nil nisi bonum, dei morti non si dovrebbe dire nulla, a parte ciò che è buono.
Ma a mente fredda, dopo un anno dalla loro scomparsa, si può parlare di entrambi con serenità, sfuggendo dalla canea della retorica di chi li riteneva due monumenti della letteratura italiana e di chi, per fare il figo, appellava Camilleri come un bastardo comunista e De Crescenzo come uno scrittore di bignamini per bigini.
Io personalmente appartengo al risicato esercito di coloro che non amavano nè l’uno nè l’altro. Non c’entra niente la loro collocazione politica – che se in Camilleri era netta, in De Crescenzo era molto più sfumata e che in ogni caso non mi ha mai impedito di stimare giganti dell’arte e della cultura agli antipodi – quanto un’allergia alla stereotipia e al populismo espressivo che purtroppo in entrambi raggiunse vette inusitate.
Ma andando con ordine, il primo merito di entrambi è stato il successo. L’Italia ha il più grande esercito del mondo di scrittori che si credono tali ma che lo sono solo per i loro intimi, al punto di essere al primo posto nella classifica dei fruitori del cosiddetto “vanity publishing”, quella pratica truffaldina con cui un editore, ben conscio di come la vanità sia una forte spinta, permette ad uno scrittore di pubblicare a proprie spese qualche migliaio di copie di un libro che, in realtà, non comprerà nessuno. Ormai la qualifica di scrittore non si nega a nessuno, neanche a chi ogni giorno imbratta i propri profili social di sfoghi contro l’ex-partner.
Proprio per questo, dinanzi a qualcuno che ha venduto decine di milioni di copie, per giunta in tutto il mondo, abbiamo non il diritto, ma il dovere di gridare: “Signori, finalmente un vero scrittore!”. E non si tratta soltanto di un exploit statistico o finanziario. Un tale successo è inevitabilmente frutto di un impatto su un’esigenza del grande pubblico e di aver indovinata la temperie del tempo. Si è prodotto ciò che la gente aspettava. Dunque, tanto di cappello a Camilleri e De Crescenzo. La prima qualità di uno scrittore è avere dei lettori.
Detto questo, debbo però dire che, quando c’è una puntata del Commissario Montalbano, cambio canale. Se ne so qualcosa è solo perchè mi fu praticamente “imposto” da una mia ex partner che ne era fanatica. Ma il mondo di Camilleri non ha mai smesso di irritarmi al di là del sopportabile.
Tralasciando alcune gratuite zeppate politiche, di volta in volta indirizzate a chi commette il gravissimo crimine di non bersi il propinato radical-chic e tenendo sempre a mente che l’arte e la cultura sono SEMPRE politiche, sono altri i veri peccati mortali di Montalbano.
Dalla lingua, nè siciliana nè italiana, nè siciliana moderna nè arcaica (“cabbasisi” e “picciotta”, “Montalbano sono”, esempi di siciliano televisivo), alla rappresentazione del paesaggio che, se effettivamente da un lato è di folgorante bellezza, dall’altro viene rappresentato come deserto, come se in Sicilia non vi fosse un’umanità brulicante, sino al punto di produrre un effetto patinante che la disumanizza, passando per alcune forme di basso populismo come l’eterno topos – e questo è un appuntamento fisso del poliziesco all’italiana – dei superiori emeriti imbecilli. Certo, così si accarezza secondo il verso del pelo l’esercito degli inferiori frustrati, ma si offende la verità. Fra i superiori ci sono dei cretini, ma che cosa prova che la loro percentuale sia superiore a quella degli inferiori? E anche quando si mostra un Montalbano pressoché ecologico, diventa ridicolo attribuirgli una casa così vicina al mare che praticamente usa solo come cabina balneare e che nella pressochè totalità dei casi verrebbe considerata abusiva.
Ma il peggio sono le donne. Qui fa riflettere come Camilleri scada in quello che oggi le nazifemministe definirebbero “becero sessismo”. La donna siciliana, senz’altro fascinosa nel suo contrasto tra la forte sensualità e il tratto fortemente aristocratico, è libera, indipendente e anticonformista. Non ha NULLA a che fare con l’iconografia della “fimmina seceleana” tutta pizzo nero e sottoveste nè con le anziane grasse massaie tutte dedite alla cucina, spesso tratteggiate dalle siculologiche penne non solo di Camilleri ma anche di altri scrittori. E questo stereotipo è talmente evidente che quando Montalbano deve trovarsi la fidanzata, da buon provinciale se la sceglie del Nord, di Genova, anche qui abbracciando lo stereotipo ricorrente di Boccadasse, come se fosse l’unico posto degno da vedere della metropoli ligure.
Completano il quadro le divertenti ma alla lunga stancanti gag di Montalbano col ridicolo Catarella, con la buonanima del medico legale Pasquano e con Mimì Augiello, ridotto ad erotomane belloccio, cosa che in fin dei conti non deve dispiacere più di tanto al suo interprete Cesare Bocci, che grazie ad esso ha raggiunto la notorietà.
Non amavo neanche De Crescenzo ma lo preferivo perchè ha sempre dato l’idea di prendersi poco sul serio. La sua prosa non era né elegante né particolarmente suggestiva ma semmai la penna di un uomo che aveva imparato da solo – e si vede – a scrivere, di cui si scorgeva sin troppo bene una formazione di tipo informatico, che da suo “collega” (si fa per dire) mi è sempre stata molto facile riconoscere e alla quale riusciva ad accorpare la geniale, infiorettante e istintiva comunicativa caratteristica del napoletano di borgata imbevuto della famosa “arte di arrangiarsi”.
Come tutti gli intellettuali del suo tempo, per poter cattivarsi il successo dei poteri forti, doveva narrare una Napoli trafitta da un farlocco terzomondismo e da una finta povertà che, se narrata a Nuova Delhi o nelle favelas di Rio De Janeiro, avrebbe fatto ridere i polli locali: anche se una cattiva letteratura ama farlo credere, Napoli non è mai stata una località del terzo mondo – e neanche la Sicilia – ma è semplicemente una città fiaccata e trafitta da morbi del tutto analoghi e corrispondenti a quelli delle grandi metropoli di paesi in crisi economica. Per dire, la Napoli di Scampia rispetto a quella dei sobborghi di New York, sarà sempre la Svizzera.
E tuttavia bisogna quantomeno riconoscergli il merito di aver rivestito questa narrazione sostanzialmente falsa e banale, con la calda e soffice coperta – per certi versi anche veristica – di un’umanità, quella partenopea, che almeno in Italia non ha eguali.
I “disegni” del “pittore” De Crescenzo sono falsi d’autore. Acquarelli che anche quando raccontano in buonafede e bonarietà il falso, al tempo stesso suscitano un istintivo sorriso, una simpatia coinvolgente che riconciliano il lettore, napoletano e non, con l’umanità partenopea e con la bellezza sfolgorante dei luoghi che fungono da teatro delle sue narrazioni. Ed è stato questo, forse, il suo merito principale: essere riuscito ad accorpare all’autodiffamazione piagnona d’ordinanza tratto caratteristico della cultura italiana dal 1945 ad oggi, passepartout per essere sponsorizzati e diffusi sui media mainstream “de sinistra”, la descrizione (forse persino idealizzante al di là della realtà) di una Napoli che fu un tempo una delle più ricche e storiche città europee. L’altro merito, non meno importante, è stato rendere accessibile, non senza invero qualche gratuita banalizzazione e semplificazione, lo studio della filosofia e della mitologia anche a chi, per percorsi di vita, non ha mai potuto (né potrà mai) approfondire Socrate, Platone o le leggende di Omero.
Il De Crescenzo degli ultimi tempi (e per ultimi tempi possiamo tranquillamente intendere almeno gli ultimi venticinque anni) era la stanca e logora ripetizione di cose già dette e stradette (la contrapposizione tra Ordine e Disordine presa pari pari, per sua stessa ammissione, dalla nascita della tragedia di Nietzsche, l’infanzia col papà tirchio che faceva il guantaio e la madre che non buttava mai nulla, l’amicizia con Bud Spencer, la guerra, la frequentazione – altro topos sessista – di prostitute in fondo di buon cuore, l’esaltazione critica del dubbio) e in definitiva si può dire che l’affabulatore smanettone di talento che veramente lascia il segno sia nato con la formidabile figura del Prof. Bellavista e dell’ammiccante narratore di filosofi e aedi per poi “morire” praticamente poco dopo, ricoperto dalla gloria e dalla serenità, tipiche di un meritato successo giunto in età matura ma fatalmente propedeutiche ad una minore fame e dunque ad una ridotta ispirazione.
In definitiva, due figure che hanno saputo vendere e vendersi.
A patto di tenere sempre a mente che l’arte e la cultura sono tutt’altra cosa.
Ciò nulla toglie al dispiacere che si può provare per la perdita di due figure che, a loro modo, qualcosa hanno dato.
FRANCO MARINO
…c’è una cosa che bisogna, ulteriormente, mettere nel “positivo” del giudizio su Camilleri e De Crescenzo:
La “lettura” è SEMPRE un bene.
Leggere serve ad aprire la mente, indipendentemente dal cosa si legge, serve a rendere elastico il pensiero e aiuta (aiuterebbe tanto), soprattutto i giovani, ad essere più e meglio presenti nelle cose della vita che travalicano il perimetro di casa propria.
Ho cominciato a leggere già alla fine delle elementari grazie a papà che ci portava libri dalle bancarelle nella Galleria Umberto, scelti per mio fratello, mia sorella e me nell’ordine relativo alla nostra età, compresa in tre anni.
Ho cominciato con Mark Twain, Dumas padre, Scott, Defoe e gli altri per poi “approdare” alla tematica da me scelta che era la letteratura “gialla” (o poliziesca e poco “noir”).
Ho amato visceralmente questo tipo di lettura grazie alla lodevole iniziativa di Arnoldo Mondadori e dei suoi “gialli” da acquistare anche in edicola.
Eppure, quando crescendo volli approfondire l’ambito nel quale avevo messo le mie radici di lettore, e quindi leggere i grandi Wallace, E.A. Poe, S.S. Van Dine, Ellery Queen, per non dire di Chesterton o della eccellenza mondiale rappresentata da Agatha Christie e Conan Doyle, ebbi problemi a raffrontare la “fruibilità” di “cotanto scritto” con le mie esigenze di lettore in cerca del supporto al relax che soltanto la lettura, secondo me, può dare.
Fu così che individuai nel popolarissimo “Perry Mason”, scaturito dalla fantasia dell’avvocato Erle Stanley Gardner, il mio “target” di lettura, al punto da divorare in poche ore ogni romanzo che avevo a leggere di questo brillante scrittore, anche, anzi, soprattutto nella veste di A.A. Fair, pseudonimo col quale Gardner scrisse 30 romanzi aventi come protagonisti gli investigatori Bertha Cool & Donald Lam che ho “divorato” almeno tre volte ognuno e che custodisco gelosamente nella mia libreria.
Orbene, come giustamente dici te, prescindendo da tematiche, ideologie e impatto culturale nel senso più ortodosso in termini, ritengo positiva l’esistenza della eredità letteraria lasciata da Camilleri e De Crescenzo, autori che amo incondizionatamente per quanto hanno contribuito a rendermi una persona più serena e “leggera” avendo fruito della loro “penna”, e spesso anche dei “pensieri” con “essa” vergati.
Tra le pochissime cose che mi sentirei di consigliare, da uomo “anagraficamente saggio”, ai più giovani c’è questa:
LEGGETE, LEGGETE, qualsiasi cosa, ma LEGGETE !!!