LETIZIA DIMARTINO – IL VIAGGIO (RUBRICA A TEMA LIBERO DI UNA SCRITTRICE)
Invito alla lettura
di Matteo Fais
I ricordi, queste ombre troppo lunghe/ del nostro breve corpo,/ questo strascico di morte/ che noi lasciamo vivendo
Vincenzo Cardarelli, Passato
C’è un senso del viaggio che nessuna guida, di quelle con apposito scaffale nelle librerie, potrà mai restituire. Ciò spetta al poeta e al romanziere, soprattutto quando si raccontano delle memorie. Per suo tramite, anche un’Italia ormai trascorsa può tornare alla luce – quella che fu del Boom, quella che forse non rivedremo mai più. Naturalmente, la ricostruzione non sarà mai fedele, ma filtrata, vista attraverso gli occhi di chi c’era e ha avuto modo di conservare dentro di sé qualcosa di quel mondo, come Letizia Dimartino. L’autrice siciliana inaugura su “Il Detonatore” una rubrica a tema libero, ma segnata da dei nuclei tematici che si snoderanno per più puntate e andranno via via mutando, attingendo dal suo archivio personale. Si raccomanda al lettore di non aspettarsi un resoconto giornalistico – la poetessa non partecipa come articolista –, ma bensì poetico – in effetti, di prosa poetica si tratta. I segni di interpunzione, apparentemente arbitrari ma in realtà funzionali a un certo ritmo narrativo, ne sono la prova. Ciò di cui vi invitiamo a godere è il modo di scrivere, la successione della parole, l’intrecciarsi e il susseguirsi delle immagini.
I Testi di Letizia Dimartino
Mio padre ci portava in alberghi familiari. Diventava amico delle proprietarie, ordinava al mattino il pesce e parlava con loro con le chiavi della camera in mano che agitava fra le dita. Lo aspettavamo pazienti, bisognava andare a vedere chiese, a pregare nell’ombra delle volte romaniche. Poi lui cominciava a gridare. Intorno il mare, i pini di Napoli, i golfi dell’Adriatico, i battelli bianchi dei porti del Tirreno. E la sua voce tuonava. Minacciava di andar via, di fuggire con la sua Giulietta. Ad Assisi seguiva i francescani e si toglieva le scarpe, accarezzava certi cani lupo e si confessava tutte le mattine. Credevamo ci lasciasse per sempre. Pensavo di restare sola in mezzo alle piazze d’Italia, nel deserto di quegli anni, lungo autostrade nuove, negli autogrill dai pavimenti di marmo e dalle porte di vetro. Sceglievo collane di coralli ad Amalfi, salivo scalette bianche e immaginavo di morire da un momento all’altro, lì, nei posti che più mi piacevano, nei ristoranti silenziosi, davanti ad un piatto di spaghetti, sugli scalini di un santuario, nella hall di un albergo scintillante, adagiata sulla sabbia nera della Calabria, in solitudine eterna. E tutto finiva in un sonno agitato. La sua voce ora calma, le tovaglie di lino dei tavolini dei bar, la camomilla fumante nella calura. Chiudevo gli occhi e non piangevo. Pensavo che una guerra ci avrebbe distrutto. Mia madre cantava e metteva una crema sul viso. Il suo urlo nei sogni negli incubi notturni, dopo giornate di fuoco. Eravamo questi. Nel bello dei luoghi, nella sua follia. Nelle sue preghiere. Nelle mie, disperate. Noi.
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Praia a mare, le onde piatte, la rena grigia. Le estati lì, mio padre nelle notti nere e spesse, la sua sigaretta accesa nel buio, col mare fermo. Io sola nella spiaggia, nessuno intorno, il silenzio. Il miracolo degli anni sessanta e i primi alberghi bianchi, il caldo nei pomeriggi in quelle stanze abbaglianti. E i treni che ci svegliavano con i loro finestrini gialli e il rumore che sconvolgeva, attraversavano l’Italia, erano come una speranza, erano tutto il desiderio. Li sentivo torcendomi nelle lenzuola ruvide, immaginavo il viaggio. E il giorno dopo il sole forte del mattino. Le colazioni e nessun grido intorno. Era un mondo diverso. Niente verrà più. Niente.
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Le molte Aspirine della nostra vita i dolori alle gambe, la cinepresa allacciata al collo e le passeggiate a Viareggio il sole sulle tende dei caffè, braccia a sorreggermi nei ritorni in albergo. Capri a lume di candela tovaglie rosa il mare sotto le scalette case bianche canzoni napoletane che mio padre canta nei rari momenti di calma. Amalfi rocciosa desiderata a lungo le collane di conchiglie le vetrate dei ristoranti sugli scogli coralli nelle vetrine il desiderio di un per sempre. Le curve nel verde di Portofino e il suo mare inventato lo sgomento le case multicolori il pianto la bellezza. Napoli grande ampia bianca. Bologna col freddo estivo in piazza il giubbotto nero gli alberghi chiassosi le loro stanze ammuffite i copriletti di cretonne fiorato l’odore del ragù le scale buie. Spoleto nel silenzio il clacson impazzito che la sveglia nel mattino la Giulia verde che corre in autostrade appena aperte le chiese dai tetti spioventi. Le industrie di Milano avvolta dal velo grigio dell’aria nelle sere a San Babila sconosciuta la paura delle città nuove. Assisi e i suoi tramonti arancioni il silenzio mio padre che vuol fuggire i crocifissi colorati Giotto e il turchino e l’oro. Mio padre che sorpassa nei tornanti delle Dolomiti il grido le mani ai capelli Ortisei e i prati fioriti. L’optical di Firenze il fango dei fiumi binari lungo un’Italia che nasce. I foulard di mia madre, io che dormo appoggiata alle sue braccia, dolori e paure. Anni perduti.