Il Premio Strega visto dalla scrittrice Veronica Tomassini
Non credo che il Premio Strega misuri il polso della letteratura italiana contemporanea. Mi par di aver detto una ovvietà. Non credo nemmeno restituisca una qualche forma di battito o meglio “sound” del nostro Paese. Non credo mi rappresenti Valeria Parrella, per una questione di gusto e di indole stolta e banalmente reazionaria (la mia), il virgulto, il colpo di reni della scrittura. Né gli altri. C’è un tentativo di retorica del giusto e del buono (immeritata, la solita posa sfigata che lascerei ai professionisti dell’exploit, in un senso o in un altro) intorno alla figura di Mencarelli che non avrebbe bisogno di pietismi in quanto è uno – deduco – che ha pagato un prezzo e intende pagarlo, e racconta un mondo, ha un mondo, non teme di precipitare per poi riferire. Ovviamente, se non si sta attenti, lo infileremo nel cul de sac pietistico del marginale che – come in un film americano – si arrampica e vince e vince un sogno. No, risparmiatelo, non lo conosco, non l’ho letto, ma sento che non ne ha bisogno. Gli altri? Veronesi ha il suo fagottino di Heidi, non pieno zeppo di panini duri per la nonna, ma stretto stretto di recensioni, un vero sacco al “Corriere”. Prima della Pandemia, non avevamo altro da fare che contarle. Era un bel modo per addormentarsi la sera. Contare le pecore o le recensioni del “Corriere” a Veronesi.
Non so se questi anni abbiano un metro lirico e narrativo, siamo capaci di raccontare questi anni? Abbiamo smesso di farlo, forse dai ’90 in poi. Mancano gli “uomini”. Il neorealismo vinceva forse perché ne aveva memoria di certi baldi, le macerie della guerra fumavano ancora da qualche parte. C’era un sottoproletariato che sarebbe esploso, smottamenti pronti a configurarsi con ultime resistenze che diventeranno estremismi. Gli uomini erano operai. O erano funzionari o imprenditori di idee pragmatiche. Si beveva il vino dai fiaschi con la paglia e si cenava tutti insieme. Ci si puliva la bocca con tovaglie di cotone o di lino. Voglio dire, possiamo raccontarvi quegli anni, dalle letture, perché intanto c’erano “gli uomini”, prima che gli scrittori. Oggi non siamo in grado di raccontare nulla, nemmeno le nostre paranoie riescono in tale spregio. Paranoie è un termine che non si usa più. Minchiate? Forse. Onnicomprensiva leggerezza (no, sciatteria) che ha tolto verbi alle azioni, parole ai fatti, fatti alla responsabilità di ognuno.
Carofiglio racconta la letteratura di questi anni? Sì? Abbiamo nutrito smidollati, gente che a trent’anni si definisce “ragazzo”, al primo corso di studi universitari. Gli scrittori del dopoguerra hanno fatto l’ultima stagione. Noi siamo senza guerre, forgiati da una pandemia adesso, che davvero non so come ci abbia trasformati, al massimo in automi telecomandati da frastornati o infami pronti a riferire, come nella migliore tradizione di delatori della porta accanto. Ecco quel che penso.
Veronica Tomassini
Scopro ora questa coltellata dritta al cuore marcio e traballante del sistema editoriale italiano. E ne esco commosso. Finalmente una voce che racconta quello che è da decenni sotto agli occhi di tutti, e che ovviamente tutte le vetrine della c.d. informazione evitano accuratamente di nominare. Il classico elefante nella stanza è la degradazione dei premi letterari ad ossi distribuiti ai cagnolini che fanno gli esercizi che piacciono al padrone, autori e autorucoli di cui nessuno sente il bisogno e che scompariranno prima ancora che sia passata la loro generazione, ma che essendo proni a quella mafia progressista che ha occupato ogni spazio pubblico sono pertanto promossi e apprezzati. Un Camilleri, un Carofiglio i cui romanzi si possono raggruppare in dozzine, come le uova, e che uno vale l’altro, sono soltanto distributori automatici di trame intercambiabili e buoni sentimenti graditi al Pensiero Unico. Anche Balzac scriveva tanto, mi si dirà, e sfornava romanzi come Mozart componeva sonate. D’accordo, ma era Balzac, e frequentava i migliori salotti aristocratici d’Europa, e dopo duecento anni lo leggiamo come lo specchio dell’umanità della sua epoca (e non solo, direi io). Carofiglio frequenta al massimo il salotto della Gruber e quelli delle madame dell’autonominatasi intellighenzia progressista italiana (e chissà cosa sarà la dementia, se l’intellighenzia sono loro), e fra duecento anni (ma anche meno) dubito che sarà preso per qualcosa di più che un errore di stampa.